Un dialogo con l’autore su esperienze ed emozioni vissute negli stadi, e sul nuovo libro “Porte Aperte”.
Chiunque abbia visitato uno stadio nella sua vita, ha ben presente le sensazioni che ne scaturiscono. Ancor più in questo momento di pandemia, in cui vorremmo che gli stadi tornassero “a porte aperte”, ci rendiamo probabilmente conto di quanto il loro valore non possa rimanere soltanto legato alla loro architettura.
Tutto questo è racchiuso nel libro “Porte Aperte – 30 avventure negli stadi più belli del mondo”, pubblicato a dicembre 2020 ed edito da Baldini & Castoldi, che Paolo Condò ha scritto nel periodo del primo lockdown, traendo forza e ispirazione dai suoi ricordi e dalle sue esperienze dirette. Ho avuto il piacere di dialogare con lui a proposito del libro e, soprattutto, del suo rapporto con gli stadi e del valore di un luogo che, ora più che mai, stiamo imparando a non dare più per scontato.
La voce gioviale di Paolo Condò, uno dei più importanti giornalisti sportivi italiani, è nota a tutti, in particolare grazie alla sua ormai pluriennale collaborazione televisiva con Sky Sport. Ma, mentre chiacchieriamo di stadi, e gli vengono in mente piccoli aneddoti (che non fanno parte del libro, ma che potrebbero serenamente essere contenuti nel volume 2), si percepisce la gioia sincera nel raccontare sé stesso all’interno di questi luoghi.
«Lo stadio è un non-luogo, come lo sono stazioni ferroviarie e aeroporti. E nella mia carriera, fino a oggi, mi sono trovato innumerevoli volte in ognuno di questi posti. Ma non c’è nulla come lo stadio che sia in grado di trasmetterti sempre qualcosa, a prescindere dalle sue dimensioni, dalla sua estetica o dal valore della partita che si è giocata».
In “Porte aperte”, nato quasi per caso su twitter, ingannando il tempo durante la primavera 2020 di lockdown, e poi ampliato su carta in un maxi-formato che ne sottolinea il valore emozionale, sono raccolte le esperienze dirette e gli aneddoti vissuti in prima persona, in 30 stadi nei quali Paolo ha viaggiato, lavorato e imparato quanto il calcio riesca a unire le persone ed essere un fenomeno di vita.
Il racconto è la cifra dominante del libro, certo, ma non lo è a un semplice livello didascalico. È un percorso che accompagna il lettore come un amico a cui si è entusiasti di raccontare il momento più curioso e inaspettato del viaggio, non la descrizione enciclopedica del luogo. Ecco, quindi, che diventa affascinante scoprire il “pericoloso” percorso che i giornalisti devono compiere allo stadio di Napoli, a piedi, radenti al muro sotto la curva ultrà, per raggiungere l’area media. O leggere il capitolo dedicato al Metropolitano di Barranquilla, che diventa un comodo spunto per un seducente (e incredibile) itinerario fra la famiglia di Faustino Asprilla e le diverse anime sociali della Colombia.
«Nel 1993, passai tutta l’estate in Sud America, all’epoca le qualificazioni mondiali si giocavano in settimane consecutive, e fu un’esperienza incredibile. Ricordo come fosse ieri la fatica per salire verso lo stadio di La Paz, o l’emozione di attraversare letteralmente le nuvole per arrivare a 2mila metri d’altitudine e ritrovarci allo stadio di San Cristóbal (Venezuela), illuminato dal sole in mezzo a un paesaggio surreale».
La forza dello stadio come luogo viene determinata dalle persone, dall’incontro con altri tifosi, dalla scoperta del quartiere intorno. È vita vissuta, prima, durante e dopo la partita in programma. E se in architettura rimane aperto il dibattito su quale sia il primo “luogo” della storia, se un terreno recintato o la vera e propria palafitta, allo stesso modo lo stadio nasce come un gruppo di persone che si radunano ai bordi di un campo da gioco, e solo dopo assume connotati costruiti, monumentali. «Ogni stadio è fondamentalmente una scatola vuota, ma esistono scatole intarsiate, con materiali pregiati, e poi esistono i sacchetti di plastica! Nel momento in cui pensiamo allo stadio, però, non possiamo slegarlo dalle persone. Non a caso, il libro nasce durante il lockdown, perché non poterci spostare da casa mi ha fatto immediatamente pensare al non poter viaggiare negli stadi».
Il viaggio è la parola-chiave di “Porte Aperte” di Paolo Condò. Il viaggio inteso come scoperta, come genuina curiosità verso il mondo, sfruttando l’occasione di una partita e di uno stadio come punto di partenza. Lo si capisce da due esempi contrapposti: l’emozionante racconto della visita a Pripyat, Ucraina, all’interno del perimetro dell’ex centrale nucleare di Chernobyl, dove la natura si sta riprendendo il vecchio impianto sportivo, e il capitolo sul Maracanã di Rio de Janeiro, vissuto in occasione dei Mondiali di calcio 2014, e definito “il mito perduto di Rio”.
«È l’ovvio passaggio dei tempi che ha cambiato le cose, e ha fatto forse perdere una parte di quel fascino che legava i tifosi così visceralmente agli stadi. Il Maracanã lo rappresenta molto bene: un impianto mitico, con un carisma unico proprio grazie a quella possibilità di ospitare fino a 150mila persone, in piedi, sulle sue gradinate. Oggi (dopo la ristrutturazione per i Mondiali, ndr) è uno stadio ancora bellissimo, ma quasi normale».
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Se il Luzhniki è l’occasione di ripercorrere il travagliato passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia, nel 1991, Ellis Park è un ponte di collegamento fra il Sudafrica del rugby, la forza di Nelson Mandela e la delusione di una strana Argentina guidata da Maradona ai Mondiali 2010. Celtic Park non è solo lo straordinario Kakà in Celtic-Milan ma anche una giornata nelle Highlands scozzesi, sulle tracce di Loch Ness e di James Bond. Yokohama 2002 è l’esperienza surreale nei trasporti pubblici giapponesi, e Buenos Aires, bé… è Buenos Aires.
“Porte Aperte” diventa quasi un dialogo con l’autore, e mentre Paolo Condò racconta i suoi viaggi e le situazioni in cui si è ritrovato coinvolto, il lettore idealmente risponde con altrettanti aneddoti, riportandoli alla mente dopo chissà quanti anni e riscoprendo momenti di vita negli stadi che sono diversi per ciascuno di noi, ma hanno lo stesso, enorme valore evocativo.
Ovviamente, anche Paolo Condò conserva nel cuore uno stadio che ha sempre sognato di poter vedere, fin da bambino: «Ho avuto la fortuna di viaggiare molto, e il calcio è stato una fantastica occasione per vedere il mondo. Vorrei finalmente visitare lo stadio di Colombes, a Parigi, teatro della finale dei Mondiali 1938, ma c’è uno stadio che continuo a sognare, e in cui non sono ancora stato: è l’Azteca di Città del Messico. Ecco, se devo scegliere un impianto che rimane nel mio immaginario fin da ragazzo, dico questo. L’epica di Italia-Germania del ’70, il Mondiale 1986, e poi una struttura ancora fedele a sé stessa, fantastica, imponente. Magari ci andrò solo da turista, chissà, ma senz’altro è ciò che mi riprometto di fare in un prossimo futuro».
Porte Aperte, di Paolo Condò
240 p., dicembre 2020, ed. Baldini & Castoldi – collana Le Boe
prezzo consigliato al pubblico, 25 euro
Paolo Condò è un giornalista sportivo con una lunga esperienza alla Gazzetta dello Sport. Attualmente scrive per Repubblica e Rivista Undici, ed è opinionista fisso per Sky Sport.
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