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Comiskey Park, storia dello sport di Chicago

Genesi ed eredità di uno stadio che è stato testimone dello sport americano.

Nella regolare urbanistica di Chicago, delineata seguendo alcuni principi espressi dagli architetti Daniel H. Burnham e Edward H. Bennett (pubblicati per la prima volta nel 1909 con una tiratura di 1650 copie), è interessante notare come le quattro principali architetture sportive di una città ricostruita dopo l’incendio del 1871 riescano ad irrompere, pur con delle differenze, nella rigidità di uno schema principalmente basato su unità predefinite. E questo non solo per le loro enormi dimensioni, definite Bigness da Rem Koolhaas (1995), ma anche per quella stessa trama urbana capace di definire una comunità, un luogo, e rendere queste infrastrutture sportive un valido esempio del Genius loci¹ decantato da Christian Norberg-Schulz nella sua opera “Paesaggio Ambiente Architettura”.

A passeggiare tra i suoi edifici maltrattati dal celebre vento che soffia incessantemente, e che ne definisce il racconto della vita stessa, viene spontaneo definire Chicago una città che vive per lo sport: in primis quello amatoriale, caratterizzato da campetti in cui quotidianamente si affrontano leggende di quartiere, ma ovviamente anche quello professionistico, il cui fascino risiede ancor di più nelle storie nascoste all’ombra dei riflettori, le stesse che promuovono curiosità e consentono alla gente di immedesimarsi, traendo addirittura rivincite, per identificazione, dalle gesta di qualche atleta.

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Vista esterna di Comiskey Park, a Chicago, negli anni ’20 (photo via Los Angeles Times)

E di racconti, nella Windy City (la Città del Vento, appunto) ce ne sono molti. Del resto, l’area nord è storicamente contraddistinto dal Wrigley Field, iconica casa dei Chicago Cubs sin dal 1914. Affacciato sul lago Michigan, invece, trova spazio lo storico Soldier Field (1924), teatro delle indimenticate imprese di Walter Payton e del suo compagno William “The Refrigerator” Perry negli anni Ottanta e simbolo di una trasformazione architettonica fra le più ardite a livello mondiale. E ancora, il Near West Side con lo United Center (1994), lo stesso che viene denominato The House That Jordan Built, fino alla zona sud con il Guaranteed Rate Field (1991), soprannominato New Comiskey e scenografia attiva delle partite dei White Sox.

Comiskey Park, storia dello sport americano del ‘900 a Chicago

Il termine “New Comiskey” potrebbe già indurre qualche curiosità riguardo all’edificio inevitabilmente predecessore, protagonista di quel “prima” che si traduce in storie in grado di conservare e tramandare la memoria di un luogo (mantenendo attivo proprio quel Genius loci di cui parlavamo).

La leggenda dei White Sox di baseball comincia da lì, da uno stadio progettato dall’architetto Zachary Taylor Davis in collaborazione con la Osborn Engineering (che abbiamo già incontrato per lo Yankee Stadium e di cui vi abbiamo parlato qui) con la necessità di sostituire il vecchio South Side Park (1890). The Baseball Palace of the World rappresentava una notevole innovazione per l’epoca, non solo per la struttura in calcestruzzo armato e acciaio (la seconda dopo lo Shibe Park del 1909, in grado di modificare il diffuso concetto di uno stadio strettamente funzionale costruito in legno) ma anche per la simmetria del layout, inusuale in quel periodo, per l’ampio outfield (l’area esterna del campo da gioco, consigliato dal lanciatore Ed Walsh) e per la sua capienza capace di impressionare ogni nuovo spettatore.

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Un disegno del previsto Comiskey Park, in un manifesto di inizio Novecento (img via Chicagology)

Gli originali 29mila posti stabilirono immediatamente un record per il baseball, raggiungendo addirittura i 52mila posti nella metà degli anni Venti, dopo ulteriori interventi di ristrutturazione.

E pensare che il progetto di Davis, già architetto anche del Wrigley Field (Chicago, 1914) e dell’originale Yankee Stadium (New York, 1923) con un passato nello studio di Louis Sullivan (insieme a Frank Lloyd Wright), era persino più ambizioso. La sua prima idea consisteva nella realizzazione di una tribuna strutturalmente studiata per evitare la presenza dei pilastri tra gli spettatori, oltre a una facciata in stile Neoclassico e un elaborato disegno dello spazio aperto che prevedeva addirittura l’inserimento di una fontana.

L’allora presidente della franchigia, Charles Comiskey, si rifiutò di finanziare quell’ardito concept ma l’impianto, comunque suggestivo per il monumentale ingresso rivestito da mattoni (che doveva richiamare il Colosseo) e le aperture ad arco decorate con dettagli riferiti alla Prairie School, sorprese lo stesso i fedeli tifosi dei White Sox. Gli stessi che cominciarono ad amarlo, identificandolo come il loro “Palace”, o meglio la “casa” in cui fondare una dinastia.

Lì, all’interno di uno stadio in continua trasformazione, nel 1917 assistettero al fuoricampo di Happy Felsch in gara-1 contro i New York Giants, e al trionfo nelle World Series. L’anno seguente, pur da malinconici spettatori esterni, video paradossale “prestito” dello stadio (per ragioni di capienza) ai rivali dei Chicago Cubs; e infine furono testimoni del cosiddetto Black Sox Scandal del 1919, quando alcuno dei giocatori di Chicago persero volontariamente le World Series contro i Cincinnati Reds dietro accordi nell’ambito del giro delle scommesse.

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Vista aerea nel momento di passaggio fra il vecchio Comiskey Park (a sx) e il nuovo stadio dei Chicago White Sox, nel 1990 (photo by Chicago History)

Storie diventate leggende, che si sono unite all’atmosfera unica che qualsiasi spettatore poteva avvertire una volta superato l’ingresso di Comiskey Park. All’interno di uno spazio che odorava di hot-dogs, con Bratwurst rigorosamente privi di ketchup, si procedeva verso il perfetto terreno di gioco, disteso, ampio, su cui svettava un tabellone segnapunti dotato di fuochi d’artificio e girandole. Tale sistema, fortemente voluto da Bill Veeck (che nel 1959 subentrò alla famiglia Comiskey a capo dei White Sox) fu ispirato dal film The Time of Your Life (H. C. Potter, 1948). Veeck, anticipando i tempi dell’attuale show business, si chiese perché nel suo stadio non si potessero organizzare coreografie con suoni e luci: la risposta fu proprio il famoso tabellone dell’Old Comiskey, costato 300mila dollari (oltre 3 milioni e mezzo al cambio attuale) e di cui una porzione è custodita oggi nella Hall of Fame. Un’attrazione che contribuì ad aumentare il seguito di pubblico, confermando la visionarietà di Veeck (che fu il primo anche a volere i nomi sul retro delle uniformi, nel 1960).

Comiskey Park era uno spazio a tratti claustrofobico ma proprio per questo grintoso, ideale emblema degli anni dorati del baseball americano. A differenza di Wrigley Field, classico stadio urbano, il ballpark di Chicago si ergeva in un’area quasi desolata – non a caso occupata precedentemente da una discarica. Magazzini, fabbriche come la Mack Trucks, e ciminiere caratterizzavano il paesaggio che appariva nebbioso, come l’atmosfera che si respirava all’interno dell’impianto. Il fumo dei sigari si levava pigramente dalle tribune fra la luce proiettata dai riflettori installati nel 1939.

Un ambiente che sapeva accendersi improvvisamente grazie a una grande giocata o allo spettacolo pirotecnico orchestrato dal suo tabellone, impreziosito dalla musica dell’organista Nacy Faust (la prima a far risuonare in uno stadio Na Na Hey Hey Kiss Him Goodbye) ma anche dai sapori della mitica McCuddy’s Tavern, la preferita da Babe Ruth, demolita nel 1989) e dai primi passi di Harry Carray nella cabina di radio-trasmissione. Del resto, al Comiskey, chiamato anche “White Sox Park” (1910-1912 e 1962-1975) ci si divertiva senza sosta, come si può constatare guardando qualche foto d’epoca dell’Auto Polo del 1915 e della pur criticata Disco Demolition del 1979.

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Lo storico tabellone segnapunti di Comiskey Park, con girandole e fuochi d’artificio (photo via Reddit)

Il baseball era l’eccezionale abitudine di Comiskey Park ma la traccia lasciata dallo stadio nello spazio adiacente all’attuale Guaranteed Rate Field permette di riflettere anche su ciò che questo impianto ha rappresentato a livello sociale, ospitando due eventi pugilistici capaci di cambiare il corso della storia. Il 22 giugno 1937, Joe Luis entrò nella storia conquistando il titolo dei pesi massimi contro James J. Braddock, con un knockout all’ottava ripresa che diventò l’inizio della sua leggenda, spezzando la separazione razziale che regnava nella boxe e autenticando la sua rivalsa dopo la dolorosa sconfitta subita nel 1937 per mano del tedesco Max Schmeling.

Il 25 settembre 1962, poi, in una serata autunnale fredda e nebbiosa, Sonny Liston chiuse la sfida contro Floyd Patterson in appena 2 minuti e 6 secondi, conquistando il titolo con il terzo knockout più rapido dell’epoca.

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L’attenzione del mondo, anche solo per una sera, si era concentrata sotto i riflettori del Comiskey Park di Chicago, davanti allo scontro fra due pugili partiti dal nulla che, pur con delle rilevanti differenze, contribuirono a sovvertire la complicata situazione dell’epoca. In fondo, soltanto nel 1961 un bus Greyhound con a bordo un gruppo di Freedom Riders era stato assaltato ad Anniston, Alabama. Patterson e Liston rappresentavano le due facce di una medaglia che comunque voleva essere gettata oltre le barriere: Liston proveniva da una località in cui si coltivava cotone, forse Sand Slough; Patterson era un giovane mandato da un giudice in una fattoria per ragazzi difficili denominata Wiltwiyck School. Insieme, su quel ring, in quello stadio, fu come se gridassero alla comunità che ce la si poteva fare, che le imprese erano possibili. Una lezione ben appresa anche da un giovane pugile seduto proprio lì vicino. Lo stesso che, anni dopo, sfidò entrambi entrando nella storia con il nome di Muhammad Ali.

» “Song for Sonny Liston” è una canzone di Mark Knopfler dedicata alla storia del pugile americano (dall’album Shangri-La, 2004), la potete ascoltare qui su Spotify

Ripercorrendo questi straordinari eventi e osservando il parcheggio che occupa oggi l’area del vecchio Comiskey, viene spontaneo reclamare qualcosa di più in memoria di ciò che quello stadio è stato. L’originale Yankee Stadium, per esempio, sembra avere avuto migliore sorte. Oggi, il luogo sul quale lo stadio sorgeva è diventato il parcheggio del vicino nuovo stadio dei White Sox e questo ci permette una riflessione su quanto l’architettura riesca a segnare i decenni ma quanto anche sia difficile conservarne la testimonianza dopo il suo passaggio.

Eppure, notando il vuoto, o meglio quell’intervallo spaziale tra il Guaranteed Rate Field e l’Armour Square Park, ci si accorge che con un piccolo sforzo sarebbe possibile ricostruire la Grande Storia trascorsa all’interno di quell’architettura. L’incitamento della gente, il singolare suono che si propaga dalla collisione tra mazza e palla da baseball, l’improbabile e coraggiosa voglia di rialzarsi di Patterson. Comiskey Park, pur nelle sue criticità, era uno stadio della gente di Chicago, la stessa che poco prima della sua demolizione scrisse sull’ormai abbandonata Bullpen Door, la porta d’accesso sul campo per i lanciatori: “Good bye Old Comiskey. Your time has past, but your memories will always last” (addio, Comiskey, il tuo tempo è passato ma la tua storia rimarrà per sempre).

» il luogo dove sorgeva Comiskey Park è qui, su Google Maps

(¹) genius loci è un’espressione dell’antichità romana che racchiude il senso di un luogo e le sue necessità. Nella sua opera (1979), Schulz indaga l’impatto che un’architettura ha nello spazio vissuto in cui viene inserita, e quanto e come è in grado di trasformarlo elevandolo a “luogo”, influenzandolo e adeguandosi a esso. In questo senso, il rapporto fra uno stadio e il suo intorno è uno dei casi più eclatanti di Genius loci moderno.

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