Le cosiddette “wave pool” generano onde all’interno di spazi ben definiti, e stanno rivoluzionando questa disciplina.
Parlare di infrastrutture sportive in riferimento alla pratica del surf può di certo apparire, almeno inizialmente, come un paradosso. Pensando a questa disciplina sportiva (annessa recentemente alle Olimpiadi) i riferimenti sono più spesso collegati a straordinari spazi naturali dislocati in tutto il mondo, come gli iconici Banzai Pipeline, alle Hawaii, o Bells Beach, in Australia.
E in effetti, il Championship Tour – campionato del mondo di surf organizzato dalla World Surf League (WSL) – calendarizza i vari eventi considerando proprio le condizioni dell’oceano, e tentando di identificare il migliore periodo per dare il via alle gare e, potenzialmente, garantire le più elevate performance da parte degli atleti.
Nonostante ciò, con la crescita a livello gestionale e finanziario della lega, nel tempo si è provveduto a sperimentare un nuovo tipo di infrastruttura dotata di una tecnologia capace di generare onde, ricreando in tal modo le condizioni dell’oceano necessarie per una competizione di surf. Su queste basi si è ovviamente aperto un mondo del tutto nuovo nel ragionare su vere e proprie architetture dedicate a questo sport, con la gemma (anche mediatica) del Surf Ranch di Lemoore, nella contea di Kings, in California.
Costato appena 30 milioni di dollari, e localizzato a 160 km dall’oceano, fra terreni desolati, abitazioni prefabbricate e cartelli che reclamano la proprietà privata, il Surf Ranch ha ospitato la Founders’ Cup of Surfing nel 2018, subito seguita da un contest ufficiale della WSL. In quella occasione, ripetuta anche negli anni successivi, si sono immediatamente comprese le possibilità offerte da una moderna wave pool, combinando la spettacolarità di onde “programmate” con una tempistica di certo più affine ai tempi televisivi.
I broadcaster, fondamentali nel surf come nel calcio, hanno infatti potuto gestire una programmazione dettagliata dell’evento, evitando i classici momenti di pausa o di attesa che caratterizzavano i classici luoghi delle gare in mare aperto.
A ideare e finanziare l’impianto della California, che ha sostituito una struttura per lo sci nautico dalla quale ha ereditato i due bacini artificiali, è stato l’undici volte campione del mondo Kelly Slater che, attraverso la sua società, la Kelly Slater Wave Company, ha collaborato con una squadra di tecnici coordinata da Adam Fincham, professore presso la Viterbi School of Engineering (USC) ed esperto di fluidodinamica.
Il concept, progettato addirittura nel 2006, ha portato alla realizzazione di una tecnologia “wave maker” di ultima generazione, in grado di generare onde con caratteristiche prestabilite, consentendo quindi un variabile coefficiente di difficoltà. Il sistema è basato su un elemento scorrevole a controllo remoto che costeggia i 680 m della vasca, dotato di lamine che, a seconda della loro disposizione e della velocità (fra i 16 e i 29 km/h), creano onde alternativamente a destra e a sinistra.
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L’innovazione consiste proprio nel tipo di onde prodotte, capaci di impegnare anche i surfisti del Championship Tour grazie a una notevole altezza e a un tempo di surfata ipoteticamente esteso fino a 45 secondi.
Eppure, sebbene tale innovazione possa sembrare esclusivamente contemporanea, la volontà di creare un moto ondoso artificiale non è certo recente. Nel 1860, ad esempio, Ludovico II di Baviera ordinò la costruzione di una prima, grezza wave pool: un’idea che, nei primi del Novecento, ebbe un buon seguito sempre in Germania per poi continuare con delle applicazioni anche in Ungheria e in Inghilterra. Da lì in poi iniziò una nuova era, identificabile con la costruzione, nel 1969, di una delle prime strutture in grado di generare onde surfabili: Big Surf, a Tempe, in Arizona. Dotato di una tecnologia brevettata dal pioniere Phil Dexter, che per quel design collaborò con il campione di surf Fred Hemmings, il sistema venne poi replicato in diversi altri impianti, contribuendo ad espandere la fan-base del surf e avviando un’epoca contraddistinta da ulteriori perfezionamenti.
Più recentemente, anche in Spagna ci si sta muovendo sulla base di queste tecnologie (e dell’idea anni ’60 di Phil Dexter), in particolare con la società iberica Wavegarden, che ha già messo a regime 7 impianti e ne ha altri 4 in apertura fra il 2022 e il 2023. E anche in Italia si sta seguendo il filone, in particolare con la wave pool dell’Idroscalo di Milano, esperienza che sta tracciando la linea per altri progetti in partenza in altre regioni italiane.
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