Una fotografia degli stadi del Mondiale italiano oggi, nel 2020.
Quasi fermi. È la risposta nel formato breve, se ci chiediamo che fine abbiano fatto gli stadi dei Mondiali di calcio di Italia 90, nel mese in cui si celebra il suo trentennale. Un Mondiale che fu esplosione di entusiasmo, raccolta di momenti iconici e primo vero sprazzo di calcio contemporaneo e mediatico, e che per questo rimane ancora oggi nell’immaginario collettivo come un evento affascinante.
Tre decenni dopo, però, di quei 12 stadi solo uno è stato completamente ricostruito, un altro è stato ristrutturato e uno giace abbandonato al suo destino. Gli altri nove rimangono immobili, a testimonianza delle loro stesse carenze costruttive che ancora ne identificano la vita sportiva.
Nel bilancio di previsione di Palazzo Chigi nel 2014, fra le voci al passivo, c’erano ancora 61,2 milioni di euro per i mutui accesi nel 1987 e derivanti dalle spese per l’organizzazione del torneo. All’epoca, i costi lievitarono fuori misura rispetto alle previsioni, con picchi scioccanti come il +214% per il costo di costruzione dello Stadio Delle Alpi di Torino, e una media di +84% per i lavori riguardanti tutti e dodici gli impianti.
Italia 90, però, rappresentò anche un banco di prova fondamentale per il calcio contemporaneo e per la FIFA. I Mondiali furono assegnati al nostro Paese nel 1984 (battendo la candidatura dell’Unione Sovietica), un anno prima della tragedia dell’Heysel e cinque anni prima di Hillsborough, e la macchina organizzativa guidata da Luca Cordero di Montezemolo fu chiamata a pensare a un evento come mai prima di allora nella storia del calcio.
Dal punto di vista tecnologico e logistico, i Mondiali 1990 furono organizzati in modo eccellente, e all’avanguardia. La portata delle infrastrutture media e tecnologiche fu senza precedenti, con una cittadella televisiva centrale che si affiancava ai Centri Stampa in ogni singola città delle 12 ospitanti, fino alla necessità di cablare gli stadi come mai prima e, soprattutto, di ragionare già in ottica di “tutti posti a sedere”, anticipando i regolamenti internazionali che avrebbero cambiato il volto dello sport nel decennio successivo.
Ma sul piano costruttivo, la visione degli impianti sportivi si risolse su linee guida estemporanee e su idee senza futuro. Solo due stadi furono realizzati dal nuovo, il Delle Alpi di Torino e il San Nicola di Bari. Entrambi dotati di pista d’atletica, per poter accedere ai fondi del CONI nell’ambito dell’appalto, lo stadio del capoluogo piemontese (la cui pista, peraltro, mancando di corsie per il riscaldamento degli atleti, non era considerata a norma e quindi risultò inservibile fin dal primo giorno per qualunque meeting IAAF internazionale), non ha superato nemmeno i due decenni da quel Mondiale. Chiuso nel 2006 e demolito nel 2009, ha lasciato spazio al nuovo Juventus Stadium che, come una matrioska, si è completamente calato all’interno del vecchio catino, risparmiando solo i basamenti esterni dei tiranti di copertura come ideale testimonianza del tempo.
Il San Nicola di Bari, invece, la cui idea doveva rappresentare un’astronave atterrata ai confini della città di Bari, segno di una visione del futuro ancora molto legata a certe immagini standard anni ’80 e precedenti, rimane vittima dell’incuria e dei materiali scadenti con cui fu costruito. La perdita graduale di vari “petali” della copertura, negli ultimi anni, restituisce il senso perfetto di un edificio che si consuma lentamente, nonostante l’ambizioso progetto firmato dall’architetto Renzo Piano.
Gli altri 10 stadi di quel Mondiale furono ristrutturati o ampliati, non senza difficoltà. Le vittime sul lavoro nei cantieri di Italia 90 furono 24 (con oltre 600 feriti), un numero altissimo, con la tragedia più grave occorsa a Palermo, quando il crollo di un’impalcatura per i lavori di ampliamento provocò la morte di 5 persone. Oggi il “Renzo Barbera” rimane forse una delle eredità migliori di trent’anni fa, nonostante gli alti e bassi del club cittadino che solo a tratti sono riusciti a dare valore alla struttura.
Per contro, sull’altra isola italiana, la Sardegna, il Sant’Elia rimase piuttosto fedele a sé stesso, subendo soltanto alcune migliorie funzionali legate all’impianto di illuminazione e alla necessità di avere tutti posti a sedere per accogliere gli spettatori. La tenso-struttura nel piazzale ovest, adibita all’epoca come Centro Stampa (e utilizzata successivamente come palestra indoor), rimane nostalgica testimonianza di quanto molti aspetti di quel Mondiale ebbero una vita pari esattamente allo spazio fra la partita inaugurale e la finalissima.
A Genova, invece, si intervenne trasformando l’involucro del vecchio stadio Luigi Ferraris, sul progetto di “stadio urbano” firmato dall’architetto Vittorio Gregotti. Oggi, la casa di Genoa e Samp è probabilmente il miglior stadio italiano per il calcio, ma rimane costretto nelle strette maglie cittadine e in parte penalizzato dall’impossibilità di essere adeguato o migliorato in modo davvero importante.
La necessità di intervenire su edifici piuttosto vecchi fu un ostacolo che non si riuscì a superare in modo virtuoso, come dimostra l’altra grande ristrutturazione dell’epoca, sullo Stadio San Paolo di Napoli. Qui la costruzione della copertura, inizialmente progettata come un armonioso velario dagli architetti Fabrizio Cocchia e Giuseppe Squillante, si risolse invece nella realizzazione di una gigantesca cassaforma in acciaio, che abbracciò lo stadio all’esterno completandosi con una tettoia in policarbonato traslucido, in ossequio agli interessi economici legati all’appalto e al costo del ferro (la cui quantità utilizzata nei lavori passò da 2 a 8,5 milioni di kg).
L’86% dei lavori da realizzare per stadi e infrastrutture di Italia ’90 fu affidato a trattative private che, in molti casi, sfuggirono ai controlli del Comitato Organizzatore e, in particolare per gli stadi (l’esempio del Delle Alpi rimane simbolico), furono gestiti in prima persona dalle municipalità. I 48 miliardi di lire stanziati grazie alla Legge 65/1987, che rientrava in un totale previsto di 250 miliardi, rimase una piccola parte a fronte del conto finale di 1250 miliardi solo per la componente relativa agli stadi.
Nonostante l’entusiasmo strabordante e iconico, per il quale Italia 90 rimane il vero punto di confine fra due epoche di calcio quasi opposte, il Paese non si è mai davvero staccato da quel torneo e, forse, solo ora ci sta provando. Il Meazza di Milano, che fu manifesto del Mondiale con la cerimonia d’inaugurazione e la prima partita del torneo (Argentina-Camerun), è ormai schiacciato sotto il peso del nuovo modello economico che ne pretende il pensionamento. Il Dall’Ara di Bologna verrà probabilmente ridisegnato nel suo catino di gradinate, cancellando l’immagine post-1990 e conservando invece quella storica degli anni ’20. E il Franchi di Firenze, che in occasione del torneo iridato era stato fornito di un nuovo primo anello, abbassando il terreno di gioco, rimane nel limbo del suo valore architettonico che si scontra, oggi come trent’anni fa (quando non fu possibile sopraelevare il secondo anello per non toccare la struttura progettata dall’architetto Pierluigi Nervi), con le pretese del progresso.
Mentre il Bentegodi di Verona e l’Olimpico di Roma conservano la loro immagine di grandi impianti di ispirazione olimpica e polisportiva, solo in parte penalizzati (e comunque non in modo decisivo) dagli interventi dei Mondiali italiani, oltre a Torino, chi è riuscito a rinnovarsi è lo Stadio Friuli di Udine. All’epoca era uno stadio quasi nuovo (inaugurato nel 1976) e non aveva avuto bisogno di interventi davvero invasivi. Oggi, dopo il progetto di trasformazione realizzato fra il 2013 e il 2016, l’iconico profilo dell’arco ellittico progettato da Giuliano Parmegiani e Lorenzo Giacomuzzi Moore fa da contraltare al nuovo sviluppo di gradinate a pianta rettangolare che abbracciano la tribuna originale, e che hanno rinnovato l’ovale in pianta che aveva segnato lo stadio nei suoi primi quarant’anni di vita.
Uno splendido paradosso
Il paradosso di Italia 90 risiede nel rapporto fra ciò che ha lasciato nella memoria dei tifosi e cosa, invece, ha disperso sul territorio nazionale come eredità costruita. Oltre agli stadi, gli appalti del Mondiale produssero edifici e strutture fantasma in ognuna delle 12 città italiane, senza una visione a medio-termine né un’idea del decennio che si stava per affrontare.
Di lì a poco, i regolamenti di sicurezza delinearono le richieste funzionali per i nuovi stadi, e i grandi media si presero la scena, trasformando la percezione del calcio sul grande pubblico e le dinamiche economiche per i club. L’Inghilterra rivoluzionò tutti i suoi impianti, trasformandone il volto in modo quasi estremo, mentre in Francia partì il progetto dello Stade de France (1993-1995, inaugurato nel 1998) e l’Olanda presentò al mondo l’Amsterdam ArenA (1996), due straordinari esempi di avanguardia che testimoniano la distanza di vedute con i progetti del Mondiale italiano.
Tra giugno e luglio 1990, il nostro Paese fu travolto da un mese di entusiasmo irripetibile, per il quale rimane perfetta la definizione di “Notti magiche”, mutuata dalle parole della colonna sonora di quel torneo, cantata da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, nella versione italiana dell’originale firmato da Giorgio Moroder. Fu uno splendido spettacolo teatrale, ma andò in scena soltanto per una sera.
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Cover image: I lavori all’interno dello Stadio San Paolo di Napoli in vista dei Mondiali di Italia 90 (photo Caoduro Lucernari)
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