Ricostruire l’edificio in forma identica sarebbe il peggior errore possibile.
Già in tempi recenti, su Archistadia, avevamo scritto dell’ipotesi di salvaguardia di ciò che resta dell’Ippodromo di Tor di Valle, all’interno del progetto per il nuovo Stadio della Roma. E come raccontato anche da Andrea Arzilli, nel suo articolo sul Corriere della Sera, sembra delinearsi una nuova scelta nel tentativo di conservare ciò che resta dello storico progetto dell’architetto Julio Lafuente.
Presa in mezzo fra la sua storia architettonica (importante) e il suo presente (da risanare a tutti i costi), e tenuta in bilico fra obblighi morali, progetti già avviati (lo stadio) e compromessi vari, il nuovo destino della tribuna dell’Ippodromo potrebbe essere la demolizione. E la conseguente ricostruzione, uguale a sé stessa, a pochi metri di distanza.
Dopo l’intenzione di porre un vincolo sulla struttura, la nuova soluzione che prometterebbe di accontentare tutti è la realizzazione di una copia, per giunta nemmeno sullo stesso luogo. Un falso, a conti fatti, che dovrebbe raccontare “il fu” segno architettonico di valore di qualcosa che non esiste più.
Si verrebbe a creare un caso di “feticismo” della storia. La realizzazione di un fac-simile come testimonianza storica-architettonica ma, allo stesso tempo, come esempio di un evidente scarico di responsabilità.
Perché è storicamente sbagliato ricostruire (uguale a sé stessa) la tribuna dell’Ippodromo di Tor di Valle?
Oltre all’acceso dibattito istituzionale, che certo costringe a prendere decisioni delicate o impopolari, e non può fermarsi al dettaglio della tribuna, l’idea stessa di realizzare una copia è una soluzione miope e sbrigativa. Esistono casi in cui si può intervenire per anastilosi, ricreando porzioni originali del manufatto ormai non più esistenti (per diverse ragioni, come terremoti o guerre). O ancora, intervenire secondo i dettami del restauro filologico, definito da Camillo Boito, riempire le parti mancanti e riportare l’oggetto alla sua forma completa originale utilizzando, però, materiali contemporanei, così da ritrovare l’aspetto estetico corretto, potendo sempre distinguere le parti storiche dalle aggiunte successive.
Via l’ippodromo, in arrivo a poche centinaia di metri un fac-simile
Ma la situazione della tribuna di Lafuente impone ragionamenti più complessi e atti di responsabilità più grandi, visto lo stato del manufatto. Demolire la tribuna per ricostruirla, identica e altrove, è un controsenso assoluto. Un’azione del genere non produrrebbe alcun risultato, se non quello di avere un nuovo oggetto all’interno dell’area di progetto, e senza alcun valore.
Tanto più se un atto di questo tipo fosse accompagnato dalla giustificazione di un vincolo sul “valore testimoniale”, come se la fruizione di un’architettura si limitasse alla sua immagine visiva. Non lo è per i dipinti (nessuno si sognerebbe di fare una copia più piccola di un celebre quadro fiammingo, per poterla agevolmente far vedere al pubblico, distruggendo l’originale), tanto meno può valere per un edificio.
Le uniche due possibilità sono conservare (e recuperare) o demolire. In entrambi i casi ci vuole coraggio nella decisione, ed entrambe le scelte sarebbero legittime e faranno il bene dell’opera, seppur in modi diversi: in un caso si potrebbe avere una variante virtuosa del progetto, che miri a riutilizzare e integrare la vecchia tribuna nel nuovo polo sportivo, altrimenti rimarrebbe la memoria, come per molti altri edifici del passato.
Rimane certo, invece, che l’idea di una copia non abbia nulla a che fare né con l’architettura, né con la gestione della città, né tantomeno con la cultura del restauro. E certamente è l’ipotesi più degradante per l’opera stessa.
Per approfondire, libri sull’architetto Julio Lafuente, da Amazon:
- Julio Lafuente, Opere 1952-1991, a cura di G. Muratore e C. Tosi Pamphili
- Julio Lafuente – Visionarchitecture, di Valenti Gomez y Oliver e Pino Scaglione
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