Una canzone che celebra l’orgoglio e la dignità del passato minerario della zona nord-est della Francia.
Questo articolo è stato premiato fra i 3 migliori articoli italiani di cultura calcistica del 2022 nell’ambito del premio “Off the Post”, all’OFFside Football Film Festival Italia (13-18 dicembre 2022).
Il 9 maggio 1998 i raggi di sole filtravano attraverso gli angoli vuoti dello Stade Abbé-Deschamps, illuminando qui e là alcune zolle di prato mentre i giocatori di Auxerre e Lens uscivano dal tunnel sul terreno di gioco, per quella che sarebbe stata l’ultima giornata di Ligue 1 1997/98 (che all’epoca si chiamava ancora Division 1). Alle porte c’era il Mondiale casalingo (che non sarebbe comunque transitato dalla cittadina della Borgogna) ma l’attualità raccontava di qualcosa di ben più importante: la squadra ospite, il Lens, era a 90 minuti di distanza dalla possibilità di vincere il primo campionato francese della sua storia.
Il gol in avvio di Sabri Lamouchi, per l’1-0 dell’Auxerre, sembrò far piombare i tifosi giallorossi in un improvviso incubo mentre, proprio allo stesso minuto di gioco, il Metz passava in vantaggio contro il Lione e scavalcava il Lens in vetta alla classifica. A quell’ultima giornata, il Lens era arrivato con due punti di vantaggio sul club dove all’epoca giocavano Robert Pires, Rigobert Song, un giovane Louis Saha e Jocelyn Blanchard (sì, proprio colui che in estate passerà poi alla Juventus ma durerà in bianconero appena una stagione).
Nei primi minuti del secondo tempo, poi, un geniale passaggio filtrante di esterno destro di Frédéric Dehu mandò in porta il terzino Yohann Lachor, che infilò in diagonale la rete dell’1-1 firmando il gol decisivo per la vittoria del campionato: al fischio finale all’Abbé-Deschamps il Lens era campione di Francia per la prima volta nella sua storia, a pari punti con il Metz (68) ma con una migliore differenza reti (+25 contro +20).
Dietro di loro, in fila, il Monaco di Barthez, Trezeguet e Henry, l’Olympique Marsiglia di Gallas e Dugarry, il Bordeaux di Micoud, Laslandes e Wiltord.
Sopra i festeggiamenti dei tifosi in curva e dei giocatori in campo, il cielo azzurro e limpido del pomeriggio di Auxerre stava lasciando ormai spazio alla sera stellata, ad accompagnare una delle vittorie più incredibili della storia del campionato francese: il Lens era la 26esima squadra a vincere il campionato francese, all’alba dei suoi 92 anni di storia.
Embed from Getty ImagesE il cielo in questa storia riveste un ruolo importante: per decenni, aveva rappresentato qualcosa di più profondo per la gente di Lens, un orizzonte a cui guardare con malinconia e con speranza, un limite lontano che molte persone si auguravano di riuscire a rivedere giorno dopo giorno.
Essere tifosi del Lens
Essere tifosi del Lens, in effetti, non vuol dire soltanto seguire la propria squadra locale. Se cercate informazioni qui e là sul web, probabilmente scoprirete che l’inno ufficiale del club si intitola “La Lensoise” (un adattamento dell’originale Marsigliese) ma non arriverete a questa risposta così facilmente, e di certo noterete comparire più volte un altro specifico risultato nel motore di ricerca: “Les Corons”, “Pierre Bachelet”.
Esiste una canzone, infatti, che è molto di più dell’inno di una squadra (e nel caso del Lens lo è in effetti per adozione). Questa canzone è il racconto della storia popolare di un’intera regione e della sua gente, un coro diventato simbolo identitario di un passato difficile ma di cui essere orgogliosi.
foto via Expedia.it
Lens è una cittadina di 36mila abitanti, con origini normanne e un passato storicamente in bilico fra il Regno di Francia e il Regno d’Olanda.
Situata nel nord-est della Francia, a pochi kilometri dall’odierno confine con il Belgio, fa parte di quella corona di città che sembrano un po’ fiamminghe senza esserlo fino in fondo (come le vicine Béthune, Douai, Arras), e tutte posizionate attorno alla vecchia Lille, la capitale della regione dell’Alta Francia, nel dipartimento del Nord-Passo di Calais.
Qui si parla anche (o soprattutto) la lingua piccarda – lo si fa anche dall’altra parte del confine, nel Belgio francofono, in effetti -, il cosiddetto ch’timi, simpaticamente raccontato nel fortunato film “Giù al Nord” (2008, regia di Dany Boon, da cui fu poi tratto il successivo remake italiano con Claudio Bisio e Alessandro Siani). E quel risultato restituito da Google cercando l’inno del Lens è davvero una canzone molto più potente di un normale inno di calcio.
La terra era il carbone, il cielo era l’orizzonte
Les Corons è il titolo di un brano di Pierre Bachelet1, cantautore parigino con origini paterne a Calais (e quindi fortemente legato alla zona nord-est della Francia), e ha un testo – firmato da Jean-Pierre Lang – che racchiude la vita e il coraggio di intere generazioni di abitanti della regione Nord-Pas de Calais e dell’intenso e drammatico legame con le attività di estrazione del carbone.
Quando il carbone fu scoperto intorno a Lens, nel 1849, quello che fino ad allora era un paesino come tanti conobbe un’improvvisa crescita industriale ed economica, trasformandosi velocemente nella cittadina che conosciamo oggi. È una classica storia da boom dell’Ottocento industriale, che accomuna Lens (e altre località vicine) con il destino minerario e produttivo di città-cugine del nord dell’Inghilterra. E quel “Les Corons” è un punto di contatto fondamentale: les Corons erano le case a schiera di edilizia intensiva operaia che sorsero a centinaia per diventare alloggio delle famiglie e degli abitanti che lavoravano nelle cave di carbone, trasformandosi in breve tempo in veri e propri quartieri.
Proprio come le “terraced houses” britanniche, les corons francesi erano il simbolo architettonico e sociale di un boom produttivo che portava con sé il paradosso di avere un lavoro ma in condizioni ai limiti dell’accettabile (se non ben sotto). Costruiti in mattoni rossi, a due piani, i corons erano di proprietà delle compagnie minerarie che le concedevano in uso ai minatori e alle loro famiglie: una stanza comune al piano terra faceva da cucina, salotto o qualunque altra cosa, al caldo dell’unica stufa della casa; al piano superiore due camere da letto non erano nemmeno lontanamente adeguate per gruppi famigliari che potevano contare anche dieci o quindici persone.
Un minimo senso di decoro era dato dal piccolo giardinetto sul retro, un orto per coltivare qualche verdura per uso personale e per dare una parvenza di dignità. E sopra ai corons il cielo, che non sempre da queste parti è azzurro, ma per i minatori era l’orizzonte a cui guardare con speranza dal buio delle grotte.
Il Nord erano i Corons, la terra era il carbone, il cielo era l’orizzonte. Gli uomini erano minatori.
“Les Corons”, di Pierre Bachelet
Questo è il testo del ritornello di Les Corons di Bachelet, che oggi i tifosi del Lens cantano con emozione prima dell’inizio del secondo tempo di ogni partita casalinga allo Stade Felix Bollaert Delelis, e che nel resto delle parole sottolinea il dramma e allo stesso tempo l’orgoglio di intere generazioni di Lensois, nati e cresciuti in simbiosi con il lavoro della miniera. Un tipo di vita così ben descritta anche nel “Germinale” di Émile Zola, romanzo del 1885 (e tredicesimo del Ciclo de “I Rougon-Macquart”) che avrebbe tristemente predetto l’immane tragedia della cava di Courrières del 10 marzo 1906, nella quale morirono 1.099 persone in seguito a un’improvvisa esplosione alle prime luci dell’alba (qui per qualche info in più).
Il 1906 è anche l’anno di fondazione del club giallorosso e non è un caso che l’11 marzo 2016, a 110 anni dalla tragedia, in occasione della partita di Ligue 1 fra Lens e Clermont, la canzone “Les Corons” sia stata cantata da tutto il pubblico a cappella in una delle sue versioni più emozionanti, per un tributo alla memoria delle vittime – sottolineato anche dalla presenza a bordo campo di due fantocci vestiti in abiti d’epoca, a rappresentare un minatore e una donna con una lanterna.
Les Corons erano le case a schiera di edilizia intensiva operaia. Una stanza comune al piano terra faceva da cucina, salotto o qualunque altra cosa, al caldo dell’unica stufa della casa; al piano superiore due camere da letto non erano nemmeno lontanamente adeguate per gruppi famigliari che potevano contare anche 10 o 15 persone.
L’ultima cava mineraria di Lens chiuse nel 1986 ma i Corons – oggi ammodernati, imbellettati e diventati casette a schiera anche molto ambite – erano un luogo sociale e architettonico radicato nel tessuto urbano di tutta la regione dell’Alta Francia, e anche in Vallonia, in Belgio. Solo il Lens e i suoi tifosi, però, hanno trasportato nel calcio questo intenso e profondo legame con il passato, facendolo diventare un inno alla storia, alla memoria e alla dignità di intere generazioni locali.
I colori sociali originali del club erano il nero e il verde, che rappresentavano i prati delle campagne e il carbone delle miniere, e solo successivamente vennero cambiati in rosso e giallo – o meglio, sangue e oro, come dicono i Lensois – forse per un tributo alla bandiera spagnola (e al dominio iberico sulla città nel 1600) o forse per un tributo ai minatori, del loro sangue versato e del luccichio dell’oro che raramente si riusciva a scovare in mezzo al carbone.
Lo stemma del Lens ha assunto dagli anni ’30 i tradizionali colori rosso e oro (giallo) che conosciamo oggi: l’elemento grafico principale è rimasto la lanterna, simbolo dei minatori, poi accompagnata dal 1971 in poi dalle torri del castello e dai due gigli, un richiamo allo stemma araldico della città.
Essere tifosi del Lens è diverso dall’essere tifosi di molte altre squadre europee, non fosse altro perché gli “ultras” allo stadio Felix-Bollaert non stanno in curva ma il loro settore è il primo anello di tribuna centrale, la gradinata Tony Marek.
Oggi le colline formate con il materiale di scarto dal lavoro delle vecchie miniere di carbone, sono diventate punti di riferimento ben visibili nel paesaggio della regione. E sentir cantare le parole di “Les Corons” prima di una partita è ogni volta un memento al valore di una storia che ha segnato la vita di migliaia di persone.
Essere tifosi del Lens è davvero diverso da tutto il resto. Non è solo calcio ma è l’orgoglio del proprio passato e la riconoscenza verso i sacrifici fatti dalle generazioni che ci hanno preceduto e che, molto spesso, hanno dato la loro stessa vita per il futuro di un’intera comunità.
- Les Corons, di Pierre Bachelet, si può ascoltare qui, su Spotify
Les Corons – Pierre Bachelet, traduzione di strofa+ritornello, francese/italiano
Et c’était mon enfance et elle était heureuse
Dans la buée des lessiveuses
Et j’avais les terrils à défaut de montagne
D’en haut je vouyais la campagne
Mon père était gueule noire comme l’étaient ses parents
Ma mère avait des cheveux blancs
Ils étaient de la fosse comme on est d’un pays
Grâce à eux je sais qui je suis
Au nord c’était les corons
La terre c’était le charbon
Le ciel c’était l’horizon
Les hommes de mineurs de fond
Era la mia infanzia, ed era felice
Tra il vapore del bucato appena lavato,
Avevo cumuli di macerie al posto delle montagne,
E dalla loro cima vedevo la campagna
Mio padre era un “muso nero” come i suoi genitori
Mia madre aveva i capelli bianchi
Eran gente di miniera come lo si è d’un paese
E grazie a loro so chi sono io
Il Nord erano i corons
La terra era il carbone
Il cielo era l’orizzonte
Gli uomini, erano minatori
(1) Pierre Bachelet (Parigi, 25 maggio 1944 – Suresnes, 15 febbraio 2005), è stato un cantautore popolare e compositore francese. Il brano “Les Corons” fa parte dell’omonimo album, che fu pubblicato nel 1982.
- lo stadio Felix Bollaert Delelis di Lens è qui, su Google Maps
Questo articolo è stato premiato fra i 3 migliori articoli di cultura calcistica del 2022, nell’ambito del premio “Off the Post” all’OFFside Football Film Festival Italia.
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Cover image: Tifosi dell’RC Lens (photo: Floflo62 / Wikimedia Commons / CC BY-SA 3.0)
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