Ascesa e declino di uno stadio che ha rappresentato l’immagine dell’arcipelago più folkloristico del mondo.
C’è una data, nella storia delle Hawaii, che ha inevitabilmente cambiato il corso del tempo. Il 7 dicembre 1941, giorno dell’attacco militare a Pearl Harbor, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto e i bombardieri Nakajima B5N portarono improvvisi panico e terrore, cancellando alle ore 7:55 ogni segno di spensierata vitalità dall’isola di Oahu.
In realtà, già in precedenza gli abitanti dell’arcipelago avevano attraversato momenti (e persino epoche) dai contorni drammatici. In quegli stessi anni le problematiche razziali, dovute ai contrasti tra i nativi e la gente proveniente dal mainland(1), erano tutt’altro che risolte, evidenziando una spiccata idiosincrasia tra la realtà e gli stereotipi comunemente associati alle Hawaii.
81 anni dopo, il porto militare di Pearl Harbour (gestito dalla US Navy dal 1899), sebbene ancora in funzione, è diventato anche un mausoleo a cielo aperto, con la USS Missouri ancorata alla banchina e il memoriale della USS Arizona a segnalare il triste relitto. Entrambe le navi costituiscono una capsula del tempo in grado di cristallizzare quel tragico evento, trasmettendo ai posteri il segno del campo di battaglia in cui perirono migliaia di persone. Ora, lo stesso Pearl Harbour, proprie per tali caratteristiche, ci fornisce l’ideale punto di osservazione di una città, Honolulu, che nel passato è stata oggetto di una imponente espansione urbanistica.
La crescita della popolazione, sempre fortemente incrementata sino agli anni Ottanta, ha ovviamente contribuito a questo sprawl urbano, stabilendo delle nuove colonie di cemento al di fuori del tessuto urbano più consolidato. Ed è lì, non lontano dal porto militare e nelle vicinanze di un groviglio di highways che si erge il più grande stadio
dell’arcipelago: l’Aloha Stadium.
Forse non molto conosciuto, ad eccezione dei fan della National Football League e del campionato NCAA, l’impianto di Salt Lake Boulevard rappresenta un’eccezionale pietra miliare nella costruzione di infrastrutture sportive. Inaugurato il 12 settembre 1975, dando seguito (e lustro) al boom di nuovi stadi realizzati tra gli anni ’60 e ’70 negli States(2), l’Aloha Stadium si è presto legato al massimo campionato di football americano diventando la sede del Pro Bowl, l’All-Star Game della NFL, dal 1980 al 2015(3).
(1) con il termine “mainland” si intendono gli Stati Uniti continentali.
(2) solo per citare qualche esempio, si ricorda l’Highmark Stadium (1973), il Foxboro Stadium (1971) e il Giants Stadium (1976).
(3) con l’eccezione dei Pro Bowl 2009 e 2014, rispettivamente tenuti all’Hard Rock Stadium e all’University of Phoenix Stadium. Alle Hawaii si teneva anche l’Hula Bowl, ovvero l’All-Star Game del college football.
Ma facciamo un passo indietro.
Ci troviamo negli anni Settanta, la popolazione dell’area metropolitana di Honolulu si attesta a 445mila cittadini. Solo dieci anni prima raggiungeva le 362mila unità, segnalando la costante affluenza di persone che provengono non solo dal mainland e dall’estero, ma anche dalle altre isole dell’arcipelago. Oahu offre lavoro e servizi,
costituendo una specie di american dream – un luogo della speranza – per molta gente residente a Maui o Kauai.
Nello stesso tempo, sulla terraferma si assiste ad una fusione dall’importanza generazionale. La NFL ha appena siglato un accordo con l’acerrima rivale AFL, dando il via a un nuovo corso sportivo e inglobando franchigie come i Buffalo Bills e i Kansas City Chiefs. Il Pro Bowl diventa così una battaglia tra AFC (erede del campionato AFL) e
NFC, ma la partita delle stelle resta priva di intensità, organizzata solo con lo scopo di accrescere valutazioni, palmarès e introiti.
L’evento, ad eccezione delle primissime edizioni, si teneva al Los Angeles Memorial Coliseum, ma poi, nel 1972, i vertici della lega optano per un’organizzazione itinerante affine a quella del Super Bowl, facendo tappa in diversi stadi: dal Texas Stadium al Miami Orange Bowl, dall’Arrowhead Stadium al Lousiana Superdome. Questo fino all’edizione 1979, perché da lì in poi qualcuno lancia un’occhiata a quelle isole lontane, scopre un grande stadio e pensa: “Perché non spostare tutto alle Hawaii?”.
Quest’idea assume contorni reali soltanto un anno dopo, nel 1980, inaugurando una nuova era che durerà fino a tempi recenti. Nella prima edizione circa 50mila spettatori assistono alla vittoria della NFC, un “tutto esaurito” affiancato dalle migliaia di fan sintonizzati sulla rete ABC. Alle Hawaii nel corso dei vari Pro Bowl sfilano giocatori (solo per citarne alcuni) come Joe Montana, Dan Marino, Jerry Rice, Randy Moss, Payton Manning e ovviamente Tom Brady.
Sino al 2009 consisteva in una festosa chiusura della stagione, e quale località poteva essere meglio delle “neutre” Hawaii?
Del resto, nei luccicanti ed (economicamente) esplosivi anni Ottanta, la scelta di trasferire il meglio della NFL a Honolulu deve essere inteso come la definitiva crescita di una lega sportiva che ormai dominava gli States, e che proprio per questo poteva permettersi opzioni per alcuni al limite della razionalità ma per altri straordinariamente logiche. Per certi aspetti, il Pro Bowl all’Aloha Stadium ripercorreva ciò che era stato già tracciato nel mondo della serialità televisiva, rendendo le Hawaii la perfetta localizzazione di sceneggiature e appunto eventi, come nel caso dell’All-Star Game, capaci di trovare il favore del pubblico proprio perché lontani dalla quotidianità del mainland.
La serie Hawaii Five-O, prodotta dal 1968 al 1980, diventa una delle più longeve, subito seguita a livello temporale dalla celebre Magnum, P.I., sempre ambientata nelle isole e rinnovata sino al 1988. L’arcipelago, e in particolare Honolulu, assume per certi aspetti il ruolo di alter ego di Miami, sottolineando tutto ciò che appartiene agli stereotipi dell’epoca.
La spiaggia di Waikiki, il surf, persino il Mai Tai assumono il ruolo di leitmotiv del benessere che caratterizza le Hawaii, inculcando come un’ossessionate pubblicità tutto ciò non può essere trovato sul continente. Un exploit che spiega la decisione di investire milioni di dollari nella realizzazione di uno stadio da 50mila posti, capace, grazie alla particolare morfologia e all’eccentrico cromatismo, di “attrarre” al meglio i tifosi del mainland.
La stessa grafica del logo dell’impianto, con le palme svettanti al di sopra dello stadio, enfatizza la ricercata esoticità di questo territorio, non a caso riutilizzata, pur con una differente espressione artistica, nelle diverse immagini commerciali dei Pro Bowl. Tuttavia, l’Aloha Stadium rispondeva non solo ad una esigenza della NFL, ma anche ad una necessità dettata dalla continua espansione del “fenomeno Hawaii”. Oltre ad essere il luogo di nascita del surf moderno e riconosciute come la patria dei più grandi nuotatori dell’inizio del Novecento, sulle isole, caratterizzate da un notevole reddito pro capite, l’interesse stava aumentando anche nei confronti di altre discipline sportive. Nella pallavolo l’University of Hawaii at Manoa vincerà 3 titoli NCAA tra il 1982 e il 1987, mentre la squadra di baseball Hawaii Islanders aveva già una notevole reputazione dopo i due titoli vinti nella Triple-A Pacific Coast League nel 1975 e nel 1976.
Nel 1979 poi qualcuno volse lo sguardo a quelle isole che sembravano così lontane e si chiese: “Perché non far giocare il Pro Bowl alle Hawaii?”
In aggiunta, nel 1974 gli Hawaii Rainbow Warriors, la squadra di college football, viene annessa alla NCAA Division I, esaltando una tendenza che ormai sembra inarrestabile. L’attenzione mediatica è ai massimi livelli, e cosa può assolvere a questa “mania”, magari comunicandola persino al continente? La risposta è già presente nello studio dell’architetto Charles Luckman, lo stesso progettista dell’attuale Madison Square Garden, ed è un imponente stadio da realizzare ad Halawa, non molto lontano da Pearl Harbour.
L’impianto, costato 32 milioni di dollari, si presenta subito come un modello di quell’epoca, dominata da infrastrutture sportive sempre più interagenti con la tecnologia. La Civic Arena, ad esempio, era stata inaugurata nel 1961 ed era dotata di una copertura retrattile, mentre proprio nel 1975 al Mile High Stadium si stavano ultimando i lavori per l’installazione di una tribuna mobile. Dei principi, orientati verso una spiccata capacità resiliente, che hanno costituito la base anche del progetto di Luckman, in grado di elevare ad un nuovo livello il
concetto di layout modificabile.
L’ambizione consisteva nella costruzione di uno stadio che potesse adattarsi a una moltitudine di sport, molto in voga negli anni Sessanta e Settanta (almeno negli States), mantenendo comunque un soddisfacente comfort visivo da parte dello spettatore. Luckman, però, intendeva discostarsi dalla logica ormai diffusa di realizzare un impianto “ibrido”, progettando invece due stadi distinti in un unico design. Si trattava di una operazione complessa, persino rischiosa, evidentemente motivata dalle problematicità già riscontrate in strutture come il Three Rivers Stadium (Pittsburgh, 1970) e l’Oakland Coliseum (Oakland, 1966), in cui la coesistenza di due sport come il football e il baseball aveva sottolineato le difficoltà di elaborare un design soddisfacente. La soluzione quindi poteva essere un’altra.
Ma quale? La risposta, decisamente avveniristica, si trovava (paradossalmente) in qualche ufficio della NASA.
La Rolair Systems, Inc. di Santa Barbara, una società collegata alla General Motors, viene infatti incaricata di provvedere ad un sistema per sollevare grandi carichi e il suo know-how è decisamente fuori dall’ordinario. Qualche anno prima aveva progettato un sistema “air flotation” (a pattino ad aria) per movimentare componenti dei Boeing 747, ricoprendo addirittura un ruolo nella movimentazione del razzo Saturn V per la già citata agenzia governativa.
Con queste premesse il principio poteva essere rivoluzionario, e infatti l’Aloha Stadium viene dotato di una tecnologia unica nel suo genere. Se negli altri stadi “gemelli” le sezioni mobili potevano riguardare porzioni relativamente contenute (con centinaia di posti), tale sistema permetteva di movimentare parti molto più vaste, consentendo, almeno potenzialmente, di modificare nella totalità il layout della struttura.
In pratica, al di sotto di alcune sezioni, erano stati posizionati 26 dispositivi pneumatici in cui veniva insufflata aria compressa. Una volta gonfi, questi elementi stabilivano una tenuta con il suolo, consentendo la fuoriuscita soltanto ad un film di aria che però permetteva di far “galleggiare” il peso sovrastante, in modo simile al funzionamento di un hovercraft.
Attraverso questo progetto, una forza pari ad una libbra (circa 0,45 kg) ne poteva spostare mille (circa 453 kg), rendendo straordinariamente efficiente la traslazione delle tribune. Ogni sezione, completamente indipendente dalle altre, veniva controllata da un dispositivo a sua volta comandato da un operatore che riusciva a spostare la porzione di stadio in solo mezz’ora. Ma a quali parti ci stiamo riferendo?
La straordinarietà consisteva proprio in questo, poiché l’Aloha Stadium era dotato di sezioni mobili da 7mila posti, garantendo quindi la movimentazione a più della metà delle sedute disponibili, ovvero 28mila su 50mila. Ruotando su dei punti fissi, come dei cardini di una porta, le tribune est e ovest si richiudevano su sé stesse, allineandosi per avvicinarsi il più possibile al campo da football e perfezionando così il layout dell’impianto. Allo stesso tempo,
seguendo una logica totalmente reversibile, le tribune potevano essere spostate nel senso opposto, configurando l’Aloha Stadium similmente ad un ballpark. La separazione tra i diversi settori, peraltro caratterizzati da due anelli, permetteva inoltre, nel layout per il football, la realizzazione di un tipico bowl statunitense, mantenendo lato nord, est, sud e ovest completamente autonomi.
Eppure, visitando oggi lo stadio, una domanda sorge spontanea: l’impianto è ancora resiliente come un tempo?
Passeggiando nel vasto parcheggio e avvicinandosi a quella corona di vegetazione che preannuncia l’Aloha Stadium, si nota che qualcosa è effettivamente cambiato. O meglio, a dire la verità, praticamente tutto. Del resto, se lo stadio svetta ancora nel bel mezzo di un grande spiazzo, la sua funzionalità è ormai relegata soltanto ai ricordi dell’ultimo evento che si è tenuto: la Great Aloha Run dello scorso febbraio. Da quel momento in poi, l’impianto si è avviato verso un inesorabile declino e all’attuale condizione di stadio dismesso.
L’intorno, quando viene organizzato il Swap Meet & Marketplace, il più grande mercato open air delle Hawaii, è ancora ricco di vitalità, ma è innegabile la desolazione che richiama un edificio di tali dimensioni ormai inutilizzato. Le rampe di accesso ai livelli superiori, un tempo colme di gente, ora sembrano rinnegare il loro passato, più simili a reperti di archeologia industriale, mentre le tribune “gialle”, quelle più alte, rivelano il loro acceso cromatismo quasi a instillare una brutale illusione nel visitatore.
Le ultime notizie rivelano che questo impianto ormai attende solo la demolizione, e verrà sostituito da una sua versione contemporanea, dimensionalmente più contenuta (circa 35mila posti espandibili fino a 40mila) ma circondata da un nuovo distretto caratterizzato da una notevole mixité d’uso.
Il progetto, gestito da una società creata ad hoc, la NASED (New Aloha Stadium Entertainment District), prevede un investimento di 420 milioni di dollari stabilendo un percorso di sviluppo esteso fino a 20 anni. In pratica, similmente a ciò che sta avvenendo per il SoFi Stadium di Inglewood, prima si realizzerà lo stadio e successivamente, seguendo diverse fasi, i nuovi quartieri. Il design, così come la posizione dell’impianto, sembrano ancora da definire, ma si coglie immediatamente il tentativo, certamente anche con una finalità commerciale, di ridurre l’attuale isolamento della struttura, collegandola a Honolulu attraverso la nuova ferrovia leggera Honolulu Rail Transit, una linea principalmente sopraelevata che prevede a breve l’apertura dell’Aloha Stadium station, una stazione vicinissima all’impianto.
Riguardando lo stadio, quello reale di cui abbiamo parlato finora, realizzato con tonnellate di acciaio e aperto nel 1975, sorge però un’inevitabile senso di tristezza, come se si stesse perdendo un’architettura che è ormai intrisa nella storia, non solo delle Hawaii ma di chiunque ami il football americano e il folklore che ha caratterizzato un’epoca d’oro di questo sport.
Sembra quasi che si sia al cospetto di un atleta ormai logoro, con un glorioso passato alle spalle, certo, ma anche in evidente difficoltà nel mantenere la propria condizione.
Prima scrivevo dell’avveniristico sistema in grado di spostare le tribune. Dal 2006 questa tecnologia è stata annullata dal permanente bloccaggio del layout, dicendo sostanzialmente addio alla disputa di partite di baseball. Già quello fu un primo (importante) passo verso l’attuale condizione, al pari di un’ammissione delle difficoltà gestionali ormai presenti, certamente dichiarate dalla proprietà: lo Stato delle Hawaii. A quanto pare, il problema consisteva in un progressivo deterioramento del sistema, forse dovuto ad una qualità non ottimale del substrato, in calcestruzzo armato, sul quale dovevano scorrere le sezioni degli spalti. Una problematicità, relativa alle proprietà dei materiali, riscontrate anche nell’acciaio, con il quale è realizzato praticamente l’intera struttura. Nel caso specifico, uno studio del 2018 eseguito dalla WJE, azienda incaricata di realizzare un report sulla sicurezza strutturale dell’Aloha Stadium, ha evidenziato notevoli pericolosità presenti nell’impianto. In questo caso è stato appurato che l’acciaio COR-TEN non era stato adeguatamente trattato, causando, in un ambiente ricco di cloruri come quello hawaiano, l’insorgenza di una significante corrosione già nel 1980.
Per evitare l’ammaloramento della struttura, tra gli anni Ottanta e Novanta (fino al 1995), si è proceduto con l’applicazione di un rivestimento protettivo composto da tre strati: un primer organico a base di zinco, un rivestimento intermedio epossidico e una resina in uretano alifatico. Da quel momento in poi, però, nulla è stato più fatto, ad eccezione di un intervento del 2009. Il risultato? Molti rivestimenti protettivi hanno superato i 30 anni da quando sono stati applicati e la corrosione è tornata a contraddistinguere lo stadio, ormai giudicato praticamente inagibile.
Ed è stato questo, a pensarci bene, che sta decretando la fine dell’Aloha Stadium. Un costo di ristrutturazione, secondo i principali network hawaiani, che si aggirerebbe intorno ai 400 milioni di dollari, superiore a quello necessario per costruire uno stadio più contenuto.
Insieme alla demolizione, secondo Hawaii News Now inizieranno persino le aste per accaparrarsi qualche cimelio, magari anche un semplice seggiolino o un polveroso striscione che reclamizza qualche Pro Bowl del passato. È l’inizio di un processo che smantellerà quell’intricato telaio d’acciaio con cui è stato costruito lo stadio, una trave dopo l’altra, finché in quell’area non resterà che uno spiazzo vuoto. Certo, subito dopo comincerà il cantiere del nuovo impianto, e dopo l’inaugurazione troveremo qui, esattamente in questo posto, nugoli di tifosi degli Hawaii Rainbow Warriors in attesa di vedere il prossimo match della loro squadra. Forse sembrerà addirittura che le isole abbiano dimenticato quel logoro stadio che per quasi cinquant’anni ha comunicato l’immagine delle Hawaii.
Ma forse, è plausibile anche questo, qualcuno si ricorderà di ciò che c’era prima. Di quella scenografia che ha ospitato i lanci di Dan Marino, oppure il concerto di Whitney Houston del 1997. Perché è innegabile che l’Aloha Stadium ha assistito – e percorso – alcuni tra più intensi decenni di sempre, e perché ha aiutato, al di là delle imperfezioni, ad accrescere nel mondo il valore di questo splendido arcipelago.
Ora, quasi a chiusura di un ciclo naturale, passerà il testimone ad un candidato più affine alla nostra epoca, ben sapendo di aver lasciato un pezzo di sé nel vissuto esperienziale di molte persone che nei prossimi mesi, magari inconsciamente, si ritroveranno a dire: “Mahalo!”, che significa “grande stadio”.
per saperne di più, leggi:
- Waikiki War Memorial Natatorium, un simbolo delle Hawaii
- Marine Stadium: il gioiello nascosto di Miami
Cover image: Panoramica interna dell’Aloha Stadium, alle Hawaii (img: Nick Olino / Flickr / CC BY-NC-ND 2.0 DEED)
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